martedì 28 marzo 2017

La telefonata

Intanto, seduto sul divano del soggiorno con la testa tra le mani, riflettevo su quello che mi stava accadendo, ero fermamente convinto che qualcosa d’inquietante incombeva sul mio destino. Assorto nei miei pensieri fui scosso dallo squillo del telefono, che mi fece sobbalzare. Mi alzai e corsi a rispondere, speravo fosse Aurora.
- Pronto? -
- Ciao Max sono io come stai? - La voce di mia madre mi fece ricordare che non ero solo.
- Bene, diciamo. - Dall’altro capo del telefono percepì  la prova che il tono della mia risposta non l’aveva convinta.
- Capisco. -
- Tu invece come stai? Hai preso le pastiglie che ti ha prescritto il medico? -
- Ma cosa vuoi che mi facciano quelle pastiglie, oramai alla mia età la vita... -
- Smettila, lo sai che non è come dici tu. - Risposi, interrompendo le sue scuse. Soffriva di problemi al cuore, ed il più delle volte aveva rischiato di morire.
- Non ti costa niente prenderle, è soprattutto per te che lo devi fare. - Aggiunsi utilizzando un tono di voce autoritario. Mi chiedevo perché le persone invecchiando diventavano come bambini.
- Va bene, dopo le prendo. Volevo chiederti come sta Aurora. E’ da un po’ che non venite a trovarmi. -
- La settimana prossima saremo da te... ok? -
- Va bene Max. -
- Per il resto tutto bene? - Chiesi cercando di non essere troppo severo con lei.
- Sì, voglio raccontarti un sogno che ho fatto. -
- Dimmi mamma, cos’hai sognato? - Ogni volta mi raccontava la stessa visione. Sognava un grande lago, dove vedeva mio padre in barca che la invitava a salire. Mentre lei si avvicinava lui si allontanava, e non riusciva mai a raggiungerlo.
- Hai sognato di nuovo papà? -
- No. Papà non centra nulla. Ho sognato te. Urlavi e dicevi cose senza senso. -
Rimasi in silenzio, ed incuriosito la lasciai proseguire.
- Eri strano. Sembravi tu ma so che non eri tu, insomma, come se dentro di te ci fosse un altro. Mi facevi paura... eri vestito di stracci e indossavi... -
- Cosa indossavo Mamma? - Inspiegabilmente fui colto da una strana agitazione.
- Non so, era una cosa strana... con delle figure. -
- Per caso indossavo un giubbotto? -
- Sì. Come fai a saperlo? - Per un attimo il sangue cessò di scorrermi nelle vene, mi sentì mancare, dopo pochi secondi la stanza iniziò a muoversi intorno a me, avevo le vertigini, mi lasciai cadere di peso su una sedia.
- E ti... ti ricordi com’era fatto? -
- Era un giubbotto nero con dei disegni sopra... del genere, non so... sembrava una cartina geografica... e tu mi dicevi di stare zitta, altrimenti mi avresti ucciso... mi vuoi uccidere figlio mio? - La voce di mia madre divenne stranamente innaturale, come se appartenesse ad un’altra persona. Fui assalito da un’affanno insostenibile, rimasi inchiodato alla sedia.
- Max ci sei? Cosa ti è successo? - La voce di mia madre mi tranquillizzò.
- Sì mamma, deve essere caduta la linea. - Dissi cercando di ricompormi.
- Ah, mi hai fatto spaventare... hai una voce strana, sicuro di stare bene? -
- Sono solo un po’ stanco, mamma ti richiamo io. -
- Va bene, a dopo Max. -


Riagganciai la cornetta del telefono, quando nello stesso istante avvertì un rumore alle mie spalle. Mi voltai ma non vidi nessuno, tuttavia percepì qualcosa attraversarmi il corpo, qualcosa di indefinito, freddo come il ghiaccio. “Sto impazzendo” pensai.

sabato 25 marzo 2017

Fidati di me

- Stammi lontano! - Urlò, - non mi piace quello che stai facendo, non mi fai ridere, hai capito? -
Io la guardai sbigottito, non capivo cosa stesse accadendo, poi fui illuminato da un pensiero, “Non mi capisce, forse non sto parlando la mia lingua com’è accaduto poco prima con la registrazione.”
Improvvisamente mi sentì gelare il sangue.
- Capisci quello che dico? - Urlai afferrandola per un braccio. Non volevo spaventarla, ma le intenzioni contrastavano con le mie azioni. Lei si liberò dalla mia stretta mentre il suo sguardo divenne strano, dinanzi a me c’era mia moglie che mi guardava come se fossi un estraneo, o come se fossi impazzito.
- Aspetta, scusa se ti ho spaventato. - Dissi cercando di rimediare alla mia reazione, Aurora in quello stesso istante mi voltò le spalle e corse verso l’ingresso della casa. Cercai di raggiungerla per fermarla ma lei si voltò verso, e mi colpì tra le gambe con un calcio. Mi accasciai al pavimento urlando dal dolore. Lei mi guardò e allungò la mano come per volermi aiutare, ma poi la ritrasse disorientata, prese la sua borsetta ed uscì di casa.
Io rimasi sul pavimento cercando di riprendere fiato, non riuscivo più a parlare: quel calcio mi aveva troncato il fiato in gola. Ansimando dal dolore cercai di riprendermi, raggiunsi la cucina carponi, allungai la mano sul tavolo facendo leva per alzarmi da terra, e mi rimisi in piedi a fatica.
Presi il brik del succo che Aurora aveva lasciato sul tavolo, e lo lanciai contro il lavandino. Raggiunsi la poltrona, recuperai il giubbotto, e trascinandomi lentamente ritornai nel mio studio. Scesi le scale, sorreggendomi con tutto il peso del corpo sul corrimano. Arrivai barcollando alla scrivania sedendomi di peso sulla sedia. Presi il registratore e lo avvicinai alla bocca.
- Mia moglie... Aurora è rientrata a casa, e... - La mia voce s’interrompeva ogni tanto per riprendere fiato.
- Le ho parlato del giubbotto ma lei è fuggita. - Spensi la registrazione e riportai brevemente il nastro indietro. Riascoltandolo mi accorsi della sensatezza della mia intuizione. Aurora non capiva quello che dicevo, e la sua reazione era del tutto comprensibile. Avrà pensato che qualcosa nel mio cervello avesse smesso di funzionare.
Quella consapevolezza mi spaventò ulteriormente, ma la cosa più importante era riprendere il pieno possesso del mio linguaggio. Afferrai il giubbotto e lo voltai posizionando il dito sulla cartina, in un punto dove era raffigurata vagamente la mia nazione. Avvertì la stessa leggera scossa attraversarmi il corpo. Riaccesi il registratore. e riprovai a parlare.
- Sono nel mio studio e sto provando a capire cosa sta accadendo. -
Spensi e riascoltai il nastro, un respiro di sollievo allentò la tensione, quando dal nastro stesso risentì la voce nella mia lingua madre. Osservai per parecchi minuti il giubbotto, ero combattuto se tenerlo o meno, riportarlo dove l’avevo trovato mi sembrava la soluzione più logica.

Cominciai a gironzolare per la stanza nervosamente. La mia mente era attraversata da decine di possibilità, addirittura mi balenò l’idea di venderlo a qualcuno, magari ad un collezionista di oggetti rari, inoltre, su internet potevo contattare collezionisti del paranormale, ma quello che avevo in mano poteva causare problemi anche a loro, e la mia buona coscienza ebbe il sopravento.

Trasformazioni

Decisi di registrare l’evento, come facevo di solito quando mi capitavano situazioni particolari. Alcuni anni prima avevo comprato un miniregistratore che portavo sempre con me, per archiviare su nastro i miei sentimenti o gli eventi che consideravo particolari, o degni di nota. Lo facevo con lo scopo di scrivere un libro sulla mia vita, da lasciare ai posteri. Non so se quella fosse paura della morte oppure malattia da protagonismo, so solo che avevo deciso di farlo, e quello della notte precedente era un evento da ricordare. Presi il giubbotto, poi il registratore dalla tasca dei pantaloni, dunque lo accesi avvicinandolo alla bocca.
- Oggi dodici giugno duemilasedici sto controllato le condizioni di un giubbotto in pelle, ritrovato la notte scorsa in un bidone della spazzatura. L’indumento è perfettamente integro in tutte le sue parti. La pelle al tatto è ruvida come avevo constatato la notte del ritrovamento, elastica ma resistente, e di un colore bruno, sul marroncino scuro. L’interno è privo di cuciture, sembra un pezzo unico di pelle. Tuttavia, la cosa che mi lascia senza fiato è il disegno che lo caratterizza.
Una cartina geografica di altri tempi, i continenti non si distinguono, sono uniti in un unico territorio. Assomiglia ad un istantanea del nostro pianeta prima della separazione dei continenti. “Pangea”... le prime mappe geografiche, raffiguravano il mondo in questo modo.
Non vi è inciso nulla che mi possa permettere di risalire al periodo storico della cartina. Invece si possono distinguere alcune montagne e delle pianure desertiche. L’insieme è affascinante ed inquietante allo stesso tempo. -
Sistemai il registratore acceso sulla sedia, e sfiorai con l’indice una zona della cartina. Il mio dito fu attraversato da una leggera scossa elettrostatica, non fastidiosa ma nemmeno piacevole, dunque tolsi il dito con un gesto istintivo, ma la mia curiosità era più forte e riavvicinai lo stesso dito alla cartina, ma questa volta la scossa non m’infastidì. La sentì scorrermi sulla mano e attraversarmi il braccio, petto e capo, avvertì i miei pochi cappelli drizzarsi sulla testa. Raccolsi il registratore dalla sedia e prosegui il mio racconto.
- Sfiorando la cartina impressa sul dorso del giubbotto ho avvertito una leggera scossa elettrica, adesso provo ad indossarlo, ad occhio sembra di due taglie più piccole. -
Presi il giubbotto e m’infilai una manica, il braccio scivolò dentro con facilità, m’infilai dunque anche l’altra manica e fui pervaso da una strana sensazione, il giubbotto mi avvolgeva adattandosi al corpo come una seconda pelle.
Avvicinai il registratore alla bocca.
- E’ bellissimo, perfetto, si adatta perfettamente al fisico, mi avvolge come... come un abbraccio, un caldo abbraccio. -
Mi guardai allo specchio: la sensazione era piacevole, me lo sarei lasciato addosso per sempre. Spensi il registratore e scesi le scale che portavano al mio studio. Riportai indietro il nastro per riascoltare il resoconto, ed accertarmi di averlo registrato così come facevo ogni volta.
Ascoltare la mia voce registrata all’interno della casa vuota e silenziosa m’incuteva timore, il ricordo di quello che mi era capitato poco prima al telefono non mi aveva ancora abbandonato, inoltre, avevo ancora la convinzione di non essere solo in casa.

Raggiunsi il mio studio accompagnato dalla voce del nastro che riproduceva la descrizione dei fatti. Ad un certo punto mi accorsi che la mia voce pronunciava parole incomprensibili, pensai si fosse avvolto il nastro sulla testina del registratore, e prima che il danno potesse diventare irreversibile bloccai la riproduzione. Aprì lo sportellino estraendo la cassetta, il nastro era integro. Riposizionai il nastro e riaccesi. 

giovedì 23 marzo 2017

La storia della Torre di Babele

- Va bene, lei conosce la storia di Babele? -
- Babele? Intende ‘la torre di Babele’? - Replicò Aurora con aria interrogativa.
- Sì, proprio quella. -
- Vagamente... ma cosa centra tutto questo con... -
- Mi lasci parlare, la prego, se non ascolta dall’inizio la mia storia non posso spiegarle cosa accade a suo marito. - L’uomo posò una mano su quella di Aurora per tranquillizzarla, ma Aurora la ritrasse. Padre Leo chiuse le mani come se stesse recitando una preghiera, e sporse leggermente il busto in avanti, poi, con voce pacata, iniziò a parlare.
- Nel vecchio testamento si narra che gli uomini, un tempo, parlavano tutti la stessa lingua e vivevano in armonia, ma ben presto iniziarono a vivere in modo peccaminoso, non rispettavano più le leggi e si sentivano onnipotenti, tanto da voler costruire una Torre che si elevasse sino al cielo, così da raggiungere il Paradiso. Dio, allora, decise di punirli per la loro arroganza, raccolse a sé i suoi settanta angeli e disse: “Ecco essi sono un unico popolo e hanno un'unica lingua, quel che vogliono costruire è impossibile. Puniremo la loro arroganza, andiamo dunque sulla terra e confondiamo la loro lingua, affinché uno non comprenda più la lingua dell’altro.”

Gli uomini, non riuscendo più a capirsi tra loro, non furono capaci di collaborare, e cominciarono a nascere delle contese, tradimenti e delitti. La torre fu avvolta dalle fiamme e crollò, travolgendo le case e le persone. Re Nimrod si salvò, ma folle dalla rabbia ordinò di ricostruirla, ma nessuno, comprendendo più le sue parole, riuscì a farlo. Allora il Re iniziò a vagare tra le rovine pronunciando frasi senza senso, finché uno schiavo lo riconobbe e lo uccise, tagliò a pezzi il suo corpo e lo sparse per i campi. Questa a grandi linee è la storia della torre di Babele, scritta nel vecchio testamento. -

Padre Leo

Padre Leo scese dall’autobus ed attraversò la strada che conduceva nel quartiere Navile di Bologna. Mentre si trovava sull’autobus ripensò all’incontro con Aurora, non era andato come si aspettava, ma comprese l’atteggiamento ostile della donna. Sarebbe stato difficile per chiunque ascoltare quella storia, ma sperava che Aurora ci riflettesse, prima che fosse troppo tardi.
Camminando con passo spedito si ritrovò ben presto dinanzi all’abitazione di Maria. Il portone era aperto, entrò e salì le scale sino al secondo piano. In quel momento si rese conto che il cuore gli batteva più forte del solito. Era certo di aver superato centinaia di dure prove nel corso della sua vita, ma quella, chissà perché, non era mai riuscita ad affrontarla.
Nell’abitazione sperò di non trovare nessuno, ma quando suonò il campanello ed udì passi avvicinarsi alla porta, l’ansia prese il sopravvento. Aprì una ragazza dai capelli biondi, che spalancò gli occhi, quando sul pianerottolo vide la figura del sacerdote.
- Buongiorno, mi chiamo Padre Leo, cercavo Maria. -
La ragazza farfugliò qualcosa, colta di sorpresa.
- Disturbo? Ripasso più tardi se vuole. - Aggiunse il prete, sovrastato da un’ansia che diveniva sempre più insopportabile. Sperò che la ragazza dagli occhi scuri gli rispondesse affermativamente, chiedendogli di ritornare in un altro momento.
- No... no, entri pure, è solo che aspettavo un'altra persona... si accomodi, avverto mia zia, mi ha detto che si chiama? -
- Le dica Leonardo. -
- Sì, certo, entri, non rimanga sulla porta. - Padre Leo avanzò di un passo, mentre la giovane gli chiudeva la porta alle spalle.
- Io sono Giulia,  piacere. -
- Piacere mio Giulia. -
- Mi segua, mia zia è in cucina. - Padre Leo riconobbe dalla porta semiaperta Maria: seduta di spalle su una sedia a dondolo, guardava la TV. Notò che aveva ancora i capelli lunghi e lisci come se li ricordava da giovane, solo che adesso erano di un bianco candido.
La ragazza si avvicinò alla zia che non aveva sentito suonare il campanello, e non si era accorta dell’arrivo del prete. La nipote le sussurrò qualcosa all’orecchio.
Maria, non appena udì il nome dell’ospite, si irrigidì sulla sedia e si voltò verso Padre Leo. I loro sguardi s’incontrarono, e per un istante il tempo si fermò per entrambi. Negli occhi e nel volto di lei erano evidenti i segni della vecchiaia, le profonde rughe che le solcavano il viso e le donavano allo stesso tempo un’aria dolce ma austera.

mercoledì 22 marzo 2017

L'ultima carezza di mia madre

- Marco, ma cosa sono questi termini? Sei impazzito? - Mia madre cercò di essere severa, mi chiamava Marco quando era arrabbiata con me.
- Impazzito? Scommetto che lo dicevi anche a papà, vero? Ecco perché è andato via, ha preferito morire tra le braccia di una giovane straniera, piuttosto che stare con una vecchia bigotta timorata di Dio, perché è questo che sei, lo sai, mamma? Mammina? -
Mia madre lo guardò terrorizzata e cominciarono a tremargli tanto le mani quanto le gambe.
- Perché mi dici queste cose, lo sai che mi fanno male, non è giusto io... io non... - Mia madre non riuscì a concludere la frase, come se la voce iniziasse a mancarle. Lui le indirizzò un sorriso beffardo e compiaciuto, mia madre lo guardò negli occhi ed il suo sguardo mutò, assumendo un’aria preoccupata ed agitata.
- Dimmi mamma, cosa, mi vuoi dire? -
- Io non ti riconosco. - Disse, ed il silenzio invase la stanza mentre i loro sguardi s’incontrarono. Mia madre fu colta da una forte agitazione, come se fosse riuscita a leggere nelle profondità dei suoi occhi la sua intrinseca, malvagia natura.
- Tu non sei mio figlio. - Disse, - tu sei quel demonio che ho sognato la notte scorsa. – Balbettò con un filo di voce mentre sentiva la bocca prosciugarsi. Lui si alzò dalla sedia su cui stava seduto, e si avvicinò a lei, lo sguardo gli divenne cupo, profondo ed inquietante.
- E chi sono io, mamma? - Chiese beffardo con una voce bassa e distorta.
- Mia madre scivolò dalla sedia e cadde in ginocchio sul pavimento, la sua mano si toccò il petto all’altezza del cuore, ed il suo viso divenne pallido come la luna. Lui si chinò su di lei.
- Adesso mi vedi vero? Adesso che stai lasciando questo mondo mi vedi, vero mammina? -
Mia madre si accasciò, rantolando.
- Tu... sei... un demonio! Dov’è mio figlio? Aiutami signore, aiutami. - Disse con un filo di voce, mentre col braccio tentò di allungarsi per raggiungere il crocifisso appeso alla parete. L’essere si alzò in piedi, e staccò il crocifisso dalla parete.
- Cercavi questo? - Disse porgendoglielo con scherno. Mia madre tentò di afferrarlo, ma lui lo ritrasse prontamente.
- Il tuo Dio non ti aiuterà. - E fu in quel preciso momento che vidi mia madre guardare verso di me, stava per morire, e prima di andarsene riuscì a vedermi. I suoi occhi cercavano aiuto ma allo stesso tempo volevano proteggermi, come sempre faceva sin da quando ero piccolo. Io non potevo fare nulla, solo osservarla mentre se ne andava. Lui si accorse di tutto e si voltò sorridendo col suo ghigno diabolico. Infine, si avvicinò al viso di mia madre.

- Non ti preoccupare, tuo figlio ti raggiungerà presto all’inferno. - Disse accompagnando la frase con un ghigno. Mia madre ebbe un sussulto, ed il suo cuore cessò di battere. In quell’istante, nel momento esatto in cui morì, avvertì la sua presenza che mi attraversò come una carezza. Fu il suo ultimo saluto.